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Sport

Depressione post-olimpica, cos’è e perché è così comune tra gli atleti

ll nuotatore più titolato al mondo parla della depressione post-olimpica che colpisce molti atleti dopo i Giochi

Quando si vincono tante medaglie, il loro scintillio può diventare quasi accecante, distogliendo l’attenzione dalla persona che c’è dietro l’atleta. Questa persona ha una personalità, degli interessi e una sensibilità che, paradossalmente, viene oscurata dal riflesso dei metalli pregiati.

Si tende a pensare che il riconoscimento sportivo sia una naturale conseguenza del duro lavoro, una meritata ricompensa dopo giorni, mesi e persino anni di allenamento per raggiungere un unico grande obiettivo.

È considerato normale vedere gli atleti sorridere e commuoversi mentre cantano l’inno della loro nazione sul podio, e pensare che quando torneranno a casa e metteranno la medaglia in una teca, le lacrime che scenderanno sui loro volti saranno solo di gioia.

Depressione post-olimpica, di che cosa si tratta

Tuttavia, anche chi ha avuto i mezzi, la determinazione e l’opportunità di trasformare la propria passione in un lavoro, come un atleta professionista, può sentirsi smarrito, specialmente dopo aver raggiunto l’evento clou per cui si è preparato per anni. “Non sai cosa fare, né dove andare”.

Queste parole rappresentano una testimonianza pronunciata da chi ha dominato il nuoto, modellando il suo percorso a piacimento e raggiungendo uno status che lo farà ricordare come il più grande di tutti i tempi.

Depressione post-olimpica, cos’è e perché è così comune tra gli atleti – Wikimedia Commons @Bryan Allison – Mentiscura.com

 

Non ha bisogno di particolari presentazioni: Michael Phelps, l’olimpionico più vincente della storia, protagonista di epiche sfide in vasca, autore di record ineguagliati.

È difficile credere che proprio lui abbia pronunciato quelle parole. Amare ciò che si fa aiuta certamente ad affrontare il lavoro quotidiano, ma questo non significa che il mestiere dell’atleta di alto livello debba essere “romanticizzato” o che gli atleti siano immuni da momenti di debolezza e stanchezza mentale.

Non è solo il fisico a essere messo alla prova ogni giorno nello sport. L’aspetto psicologico è fondamentale, sia in allenamento che in gara, e non deve essere trascurato né durante il percorso verso il raggiungimento degli obiettivi, né dopo averli raggiunti.

In un mondo in cui la salute mentale non riceve ancora l’attenzione che merita, Michael Phelps si apre in un’intervista con il media francese Brut, ripercorrendo i punti salienti della sua carriera e ricordando anche i momenti bui dopo le Olimpiadi di Londra, sottolineando l’importanza della salute mentale nello sport.

Quello di Phelps è un caso eclatante, ma non isolato. Un fenomeno simile ha colpito anche Allison Schmitt, sua compagna di squadra, e Missy Franklin, entrambe campionesse olimpiche a Londra 2012.

Schmitt ha dovuto affrontare un periodo di stop prima di ritrovare la serenità, mentre Franklin ha trovato la pace al di fuori dell’ambiente delle competizioni.

La depressione post-olimpica, secondo le percentuali citate dallo stesso Phelps, va oltre la squadra statunitense e non colpisce solo il nuoto.

Questo non significa rinnegare una carriera straordinaria. Phelps stesso definisce i suoi vent’anni di carriera e cinque Olimpiadi come “divertenti” e afferma: “Ho raggiunto tutti i miei obiettivi.”

Ogni traguardo ha però un prezzo elevato. Phelps iniziava le sue giornate in piscina alle sei e mezza del mattino, facendo stretching e poi allenandosi in acqua per due ore. Ripetendo questo iter, trascorreva circa 25 ore alla settimana in piscina.

Il suo programma rigido non prevedeva giorni di riposo: “Per 5 o 6 anni, mi sono allenato 365 giorni all’anno. Volevo ottenere risultati che nessuno aveva mai raggiunto, quindi dovevo fare qualcosa di diverso.”

Anche nelle giornate più difficili, quando tutto ciò che si desidera è premere il tasto “Ritarda” della sveglia, Phelps trovava la forza per dare almeno il 5, 10 o 20%, piuttosto che nulla. Una routine rigorosa, una volontà fuori dal comune e la determinazione di andare sempre avanti hanno reso Phelps il più grande di tutti i tempi. Tuttavia, a lungo andare, la mente si logora e i segni di cedimento non possono essere ignorati.

Ciò che si prova a nascondere non va mai via del tutto. Phelps, dopo aver percepito i sentori della propria sofferenza psicologica, ha deciso di insabbiarli e di non farne parola con nessuno, né con gli allenatori né con i compagni di squadra, e dunque neanche con il mondo intero.

La motivazione è tanto precisa quanto agghiacciante: “Durante la mia carriera non ho lasciato che trasparisse niente, perché lo consideravo come ammettere un segno di debolezza. Cercavo di “mettere da parte”, di ingoiare il rospo e far credere che andasse tutto bene”. Ma fingere che non c’è niente che non vada non può durare per sempre.

Non è una questione di risultati: Phelps, infatti, è in assoluto lo sportivo più titolato nella storia dei Giochi moderni con ben 23 ori, eppure ha dovuto lottare a lungo con un forte malessere psichico: “Ai grandi eventi internazionali facciamo di tutto per vincere una medaglia e rendere orgoglioso il nostro Paese”, rivela ancora lo Squalo di Baltimora, “poi però quando si torna a casa è solo una questione di chi sarà il prossimo. Il comitato olimpico americano non ha fatto nulla per aiutarci e questo è molto triste”.

In realtà qualcosa negli ultimi tempi si sta muovendo: nel 2016 infatti l’USOC ha lanciato Pivot, un programma predisposto per aiutare gli atleti ad uscire dalla depressione e a scoprire nuove passioni nel momento in cui lasciano le gare.

Una sorta di re-inserimento nella vita quotidiana per chi, come un nuotatore, per 25 anni ha trascorso gran parte delle sue giornate in acqua. “Io racconto la mia storia perché ho capito quanto sia importante aprirsi e parlarne”, aggiunge Phelps, che ha istituito pure una Fondazione che si occupa di questi temi.

Giulia De Sanctis

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