Le mozioni di sfiducia come quelle contro Matteo Salvini e Daniela Santanchè hanno sempre avuto scarsa probabilità di successo. Ecco perché
Nei prossimi giorni, la Camera si troverà a votare due mozioni di sfiducia: una rivolta al vicepresidente del Consiglio e ministro dei Trasporti, Matteo Salvini, e l’altra alla ministra del Turismo, Daniela Santanchè. Se approvate, queste mozioni significherebbero le dimissioni di entrambi dal governo.
La mozione contro Salvini è stata presentata lo scorso 23 febbraio dai capigruppo di quasi tutti i partiti di opposizione: l’iniziativa è stata promossa inizialmente da Matteo Richetti di Azione, poi seguito dai capigruppo di Partito Democratico, Movimento 5 Stelle e Alleanza Verdi e Sinistra, impegnando quindi tutto il centrosinistra tranne Italia Viva e + Europa.
La mozione contesta a Salvini i rapporti tra la Lega e il partito di Vladimir Putin, Russia Unita, e le sue manifestazioni di vicinanza al regime di Putin, ritenute discreditanti per il governo italiano.
La mozione contro Santanchè, basata sulle diverse vicende giudiziarie legate alla sua attività imprenditoriale precedente al suo incarico governativo, è stata depositata in Parlamento il 6 luglio 2023 dal Movimento 5 Stelle.
Anche se una mozione simile è stata discussa e respinta al Senato il 26 luglio dello stesso anno, la recente indagine della procura di Milano su Santanchè per truffa aggravata ha portato Francesco Silvestri del M5S a ripresentare e aggiornare la mozione alla Camera.
Tuttavia, è altamente improbabile che queste mozioni vengano approvate. Nella storia della nostra Repubblica, su 82 mozioni di sfiducia individuali presentate in Parlamento, solo una ha avuto esito positivo, causando le dimissioni del ministro in questione.
Questo perché le mozioni di sfiducia sono solitamente presentate dall’opposizione, che in Parlamento è in minoranza e quindi ha poche probabilità di successo.
Nel 1984, il Parlamento italiano sperimentò per la prima volta una mozione di sfiducia individuale contro un ministro, un evento di notevole importanza.
La Costituzione non prevede questa procedura, bensì solo una mozione di sfiducia all’intero governo, la cui approvazione porterebbe alle dimissioni di tutto l’esecutivo.
Tuttavia, il 4 ottobre di quell’anno, il Partito Radicale di Marco Pannella presentò alla Camera una mozione contro il ministro degli Esteri Giulio Andreotti, citando presunte connessioni con il banchiere e criminale Michele Sindona, emerse da nuove inchieste giornalistiche su scandali bancari italiani.
Questa mozione, non prevista dalla Costituzione, impegnava il governo guidato da Bettino Craxi a rimuovere Andreotti. Tuttavia, la mozione fu respinta, anche grazie all’astensione del gruppo parlamentare del Partito Comunista Italiano (PCI), guidato da Giorgio Napolitano.
Ciò scatenò una polemica politica, con i radicali che accusarono i comunisti, spingendo il PCI a presentare una mozione analoga al Senato. In vista della discussione, il presidente del Senato Francesco Cossiga iniziò un aggiornamento del regolamento per disciplinare questa procedura.
La votazione avvenne con appello nominale e scrutinio palese, rendendo la mozione di sfiducia meno influente, poiché ogni senatore doveva esprimere pubblicamente la propria preferenza.
Anche se le mozioni presentate al Senato furono respinte, questo evento segnò l’inizio della pratica della sfiducia ai ministri in Italia.
Successivamente, la Camera introdusse una modifica specifica al suo regolamento, mentre al Senato si lasciò che fosse la prassi a determinare il funzionamento della procedura.
In entrambe le camere, tuttavia, si stabilì che per la mozione di sfiducia al singolo ministro si debbano seguire le stesse regole valide per la sfiducia al governo: deve essere sottoscritta da almeno un decimo degli eletti, non può essere discussa prima di tre giorni dalla data della sua presentazione e va votata per appello nominale. Queste regole sono ancora in vigore oggi.
Ci vollero undici anni, dopo il 1984, prima che una mozione di sfiducia a un ministro avesse successo, ma fu un caso unico.
Nel gennaio del 1995, un governo tecnico guidato dall’economista Lamberto Dini, sostenuto da una coalizione eterogenea di centrosinistra, centro e anche dalla Lega Nord, era al potere.
Il ministro della Giustizia, Filippo Mancuso, siciliano e giurista, entrò in conflitto con il “pool” di magistrati di Mani Pulite, che da anni indagavano sui casi di corruzione politica e imprenditoriale italiani, noti come Tangentopoli.
Mancuso inviò ispettori alla procura di Milano, accusando i magistrati del pool di utilizzare metodi discutibili per ottenere confessioni dagli indagati. Le sue posizioni radicali e il suo stile teatrale causarono tensioni anche con il presidente dell’epoca, Oscar Luigi Scalfaro, mettendo in imbarazzo il primo ministro Dini.
La mozione di sfiducia contro Mancuso fu presentata dai partiti di centrosinistra della maggioranza, mentre il governo fece poco per difenderlo.
Anche Dini fece trapelare alla stampa che avrebbe preferito le dimissioni di Mancuso. La mozione fu votata il 19 ottobre: passò con il sostegno di quasi tutti i senatori della maggioranza e di alcuni dell’opposizione, mentre molti senatori contrari decisero di astenersi. Mancuso si dimise, ma continuò a polemizzare.
Prima del voto, aveva annunciato un ricorso alla Corte Costituzionale per contestare la legittimità della procedura. Nel gennaio del 1996, la Corte Costituzionale confermò che la sfiducia era legale e conforme alle leggi e ai regolamenti parlamentari.
La mozione contro Mancuso rimane l’unica individuale approvata finora: questa evidenza statistica dimostra quanto i partiti abbiano utilizzato con parsimonia questo strumento nel corso degli anni.
Apparentemente efficace per mettere in difficoltà un ministro, spesso il voto sulla mozione è considerato il culmine delle polemiche su un ministro sotto attacco dall’opposizione.
Tuttavia, poiché l’esito è spesso prevedibile, la bocciatura della sfiducia può addirittura rafforzare la posizione del ministro, che può interpretare il voto come un rinnovo della fiducia parlamentare.
La XVII legislatura, dal 2013 al 2018, è un caso a sé, caratterizzata dall’ingresso del Movimento 5 Stelle in parlamento. In quel periodo, si registrò un aumento significativo delle mozioni di sfiducia presentate: ben 34 in totale, di cui 30 proposte dal M5S.
Il Movimento utilizzava le mozioni di sfiducia in modo inedito, chiedendo le dimissioni di ministri non solo per le loro azioni durante il mandato, ma anche per vicende giudiziarie ancora in fase preliminare, o persino per questioni riguardanti i loro familiari.
Un esempio è rappresentato dalla mozione di sfiducia presentata dal M5S contro il ministro dello Sport Luca Lotti il 15 marzo 2017, respinta dal Senato.
La mozione era basata sul fatto che Lotti era indagato nell’inchiesta sul caso Consip, riguardante presunti comportamenti illeciti nella gestione di appalti pubblici. Tuttavia, nell’11 marzo 2024, Lotti è stato assolto dal tribunale di Roma, e l’indagine si è rivelata inconsistente.
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