Il corpo della donna viene oggettivizzato nelle pubblicità e questo può avere delle conseguenze pericolose all’interno della società
L’oggettivazione sessuale è una forma di deumanizzazione che riduce la persona ad un corpo teso a soddisfare i desideri sessuali e quindi ad un oggetto da sfruttare e manipolare (Volpato,2011)
Per oggettivazione sessuale si intende il fenomeno che induce a non vedere più l’altra persona come un essere umano dotato di sentimenti ma come un semplice oggetto che esiste per soddisfarci.
Potete ben immaginare quanto sia pericoloso e quanto possa andare ad alimentare la violenza sulle donne: vedendo la donna come un oggetto la si priva del suo lato emotivo e questo fa sentire autorizzati a soddisfare ogni desiderio senza considerare le ripercussioni psicologiche che tali azioni potrebbero avere su di lei.
Ma cosa c’entra la pubblicità in tutto questo e in che modo una comunicazione fatta male può andare ad aumentare questo grave problema presente nella società moderna? Scopriamolo.
Quante volte vi è capitato di vedere in televisione la pubblicità di un profumo in cui una modella viene presentata in tutta la sua bellezza mezza nuda e con sguardo ammiccante?
Forse non lo sapevate, ma quello che stavate guardando in tv era un chiaro esempio di oggettivazione sessuale. Lo scopo principale della modella in questo tipo di pubblicità è quello di rappresentare il desiderio, lo stesso che si vuole indurre negli spettatori nell’acquistare quel determinato profumo o prodotto.
Lo stesso avviene per i servizi fotografici per campagne e pubblicità finalizzate ai giornali. Quante volte vi è capitato di vedere pubblicità cartacee di modelle in atteggiamento provocante, magari sedute a cavalcioni su modelli, solo per mostrare quanto un vestito potesse essere seducente?
La verità è che il sesso, il desiderio, la corporeità sono elementi che vengono sfruttati dalle pubblicità, a discapito della realtà interiore e del lato umano. Infatti, la donna smette di esistere come essere umano e diventa unicamente un corpo utile ad aumentare l’apprezzamento di potenziali clienti.
L’aspetto più critico di tutto questo è che quella considerazione erronea, quell’oggettivazione, viene assimilata dalla mente di chi osserva e resta lì, latente, pronta a riaffiorare in diverse situazioni: il fatto che la donna diventi oggetto nella mente degli uomini, può farli sentire autorizzati a disporre di lei come meglio credono nella vita reale e questo porta a tutte le violenze che sentiamo giornalmente accadere.
L’esposizione prolungata a questi messaggi può avere delle conseguenze irreversibili.
Erving Goffman negli anni ‘70 ha voluto indagare la comunicazione visiva e le sue ripercussioni a livello psicologico, mettendo in luce quanto le donne venissero rivestite di uno stereotipo in gran parte delle pubblicità, come oggetto di desiderio o come mogli e madri perfette. Nessuna via di mezzo.
Negli anni ’50 e ’60, la donna nella pubblicità veniva raccontata come a moglie perfetta, accondiscendete e obbediente. Poi, piano piano, questo stereotipo ha lasciato il posto all’oggettivazione sessuale e al sessismo per aumentare l’appetibilità del prodotto: la speranza dei pubblicitari è che il desiderio per la donna avvenente mostrata, possa spingere a comprare il profumo, il vestito o qualsiasi altro prodotto.
Questa “evoluzione”, se così possiamo chiamarla, porta anche ad un’altra problematica ovvero al senso di inadeguatezza e al confronto infelice: vedendo l’immagine perfetta di una modella in tv o sui social, le ragazze, soprattutto in età adolescenziale, cominciano a paragonare la loro fisicità a quella perfetta e inarrivabile delle modelle e questo porta a enormi problematiche a livello alimentare, depressive e di autostima.
L’esposizione a modelli femminili oggettivati e sessualizzati, porta a interiorizzare lo sguardo oggettivane e alimenta la vergona e l’insoddisfazione.
L’oggettivazione sessuale è bidirezionale.
Questo significa che, ad un certo punto, chi viene oggettivato dallo sguardo altrui, comincia ad interiorizzare a sua volta l’oggettivazione e a vedere sé stesso come un oggetto.
Ad esempio, una modella potrebbe cominciare a non percepirsi più come un essere umano dotato di sentimenti e sempre di più come l’immagine di copertina perfetta. Questo può causare delle conseguenze deleterie insanabili, e portare la modella stessa a sentirsi un oggetto in balìa dei desideri altrui.
Per mostrarvi meglio di cosa stiamo parlando, ecco una pubblicità di Dolce e Gabbana uscita tra il 2006 e il 2007. La modella viene tenuta per i polsi bloccata a terra mentre un gruppo di uomini incombe su di lei. Questa immagine ha indignato l’opinione pubblica ed è stata accusata di incitare allo stupro. Come hanno giustificato tutto questo i due stilisti? Con poca autoanalisi:
“Per noi quella foto, onirica, è espressione di passionalità, bellezza ed erotismo. Fa parte di una serie di foto scattate da Steven Klein. La prossima mostra un uomo con un serpente. Contesteranno anche quella? La violenza è altrove.”
Un altro esempio à la pubblicità di Amaro del Capo in cui una giovane donna senza vestiti comprare in prima impressione con lo slogan decisamente di pessimo gusto che cita: “Fatti il capo”, andando a rimarcare lo stereotipo di genere sessista che vede la donna disposta a tutto per fare carriera, tra cui appunto, farsi il capo.
Infine, come dimenticare le pubblicità della Muller? In questo caso per promuovere dei semplici yogurt, Muller opta sempre per dei rimandi più o meno espliciti al sesso, in cui donne avvenenti mangiano in modo allusivo gli yogurt alla frutta.
Basti pensare allo slogan: “Fate l’amore con il sapore” e diventa già chiaro su cosa vogliano davvero fare leva.
Si possono giustificare queste “scelte creative” come libera espressione nelle pubblicità, ma è davvero così? O siamo talmente assuefatti da questo tipo di comunicazione da non riuscire più a capire quando può diventare pericolosa?
Spesso vengono addidati i film pornografici come i principali colpevoli dell’oggettivazione femminile, ma questa in realtà è molto più sottile e si insinua nella maggior parte di spot pubblicitari e compagne appese in giro per la città. La continua esposizione a questi messaggi subliminali meno espliciti, può essere ancora più pericolosi.
Perché tutto questo continua ad esistere? Semplicemente perché vende. Ma, ad oggi, l’opinione pubblica è diventata più critica e sembra accettare sempre meno messaggi ambigui e sessualizzanti nelle pubblicità.
La speranza è che piano piano questo fenomeno smetta di esistere e che ci sia una reale evoluzione nei messaggi pubblicitari, magari guidati da un supporto psicologico che sappia metterne in luce i potenziali effetti negativi sulle persone.
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