La Banca dei Semi delle Svalbard è un deposito che custodisce le più importanti sementi del mondo, ma è davvero utile? Scopriamolo insieme
Ci sono dei luoghi al mondo in cui si combatte la battaglia per la biodiversità, messa a rischio dal cambiamento climatico, ma anche da scelte industriali.
Le banche del germoplasma, come si chiamano tecnicamente i giganteschi depositi di semi sparsi nei cinque continenti, stanno di norma decine di metri sottoterra abbastanza per resistere a calamità naturali e a un attacco bellico.
Quello che conta è preservare il più a lungo possibile il patrimonio genetico con cui l’imprevedibilità del caso e milioni di anni di selezione naturale hanno arricchito il Pianeta.
Come accade nelle Svalbard, arcipelago norvegese a milleduecento chilometri dal Polo nord: il Global Seed Vault è una galleria scavata nel permafrost per 130 metri, con temperatura costante compresa tra i meno tre e i meno quattro gradi, costruita nel 2008 dal governo di Oslo e che oggi contiene 1,2 miliardi di semi che fanno capo a 5.694 specie.
Un backup della biodiversità globale realizzato sulla base del Trattato internazionale sulle risorse genetica delle piante per l’alimentazione e l’agricoltura (Itpgrfa), entrato in vigore nel 2004.
Secondo l’accordo, i semi inviati alla speciale “banca” delle Svalbard restano proprietà del Paese che li spedisce, unica condizione per il deposito: accettare di rendere disponibili campioni delle proprie scorte per scopi di ricerca, di coltivazione ed educativi.
Proprio come accade negli sportelli bancomat, sette anni dopo è arrivato il giorno del primo prelievo, richiesto nel 2015 dal Centro internazionale per la Ricerca agricola in aree asciutte (Icarda) di Aleppo, in Siria.
La struttura, una delle più importanti a livello globale, era stata occupata da bande armate nel corso della guerra civile che da oltre un decennio insanguina il Paese.
Fortunatamente i semi erano già stati spediti nell’Artico, così, il direttore ha potuto richiedere un terzo delle circa 325 scatole stoccate a Svalbard, tra cui varietà di erbe, frumento e orzo particolarmente adatte ai climi aridi. Il debito nel 2017 è stato saldato e gli scatoloni carichi dei preziosi semi hanno ripreso la via del Nord.
Preservare la biodiversità non è solo una preoccupazione da scienziati o ambientalisti: è necessario ad aiutare l’umanità a superare le sfide del futuro. “L’orzo tradizionalmente coltivato in Africa è molto diverso dal nostro: non necessariamente migliore ma dotato di caratteristiche che lo rendono più resistente alla crisi climatica, proprio perché più ‘rude’ – spiega a Wired Matteo Dell’Acqua, professore associato di Genetica agraria alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa -. Per esempio, ha bisogno di meno irrigazione, fertilizzanti, resiste meglio alla siccità e alle malattie”. Dell’Acqua e il suo staff hanno da poco sequenziato il genoma di centinaia di varietà del cereale etiope. “In pratica, abbiamo letto cosa c’è scritto nel dna – chiarisce -. L’ agrobiodiversità delle coltivazioni africane è una risorsa non sfruttata: contengono caratteristiche che potrebbero essere molto utili anche in Europa. E non c’è necessità di ricorrere a tecniche di bioingegneria, argomento che so essere caldo: il trasferimento di geni si realizza da sempre tramite incrocio”.
Tecniche computazionali avanzate e machine learning hanno permesso ai ricercatori dell’ateneo toscano di incrociare dati genomici e climatici per tentare di prevedere gli scenari da qui al 2100.
“Ci siamo accorti che in alcune zone è necessario intervenire per tempo e cambiare la tipologia di orzo che viene coltivata. Ma anche, e questo chiude metaforicamente il cerchio, che in Etiopia esistono già varietà pronte per il clima del futuro”, dice l’esperto. Il progetto Africa Connect della Scuola Sant’Anna prevede scambi frequenti con il continente, e un accento particolare sul tema dell’agricoltura di sussistenza: “Che impiega cinquecento milioni di lavoratori per sfamare due miliardi di persone – dice Dell’Acqua -. In Europa sembra difficile da credere, ma in Africa si vede chiaramente quanto conti”.
Ma la conservazione della biodiversità non avviene solo in profondi tunnel artici o in avveniristici laboratori: secondo Roberto Papa, ordinario di genetica agraria all’Università Politecnica delle Marche, anche il pollice verde di semplici cittadini a digiuno di biologia può fornire un piccolo contributo alla conoscenza.
Il progetto di citizen science si chiama Increase (Intelligent collections of food legumes genetic resources for European agrofood systems), durerà sei anni ed è finanziato dalla Commissione europea con sette milioni di euro.
“Per partecipare basta scaricare l’applicazione per cellulare dagli store online e registrarsi: a casa arriverà un pacco di semi di fagioli – dice a Wired il docente, che è coordinatore del progetto -. A questo punto, il cittadino dovrà coltivarli in balcone o in giardino e inserire le informazioni sulla crescita delle piantine nel sistema a intervalli regolari”.
Naturalmente, alla fine del percorso, il frutto di tanta fatica potrà essere consumato. Il progetto ha l’approvazione della Fao (l’Organizzazione delle Nazioni Unite per alimentazione e agricoltura) e l’applicazione ha da poco raggiunto i mille utenti registrati, assicura Papa. Perché partecipare? “Innanzitutto, per contribuire alla raccolta di informazioni che serviranno per valutare il potenziale e la diversità di oltre mille varietà locali di fagioli. In secondo luogo, per misurare i caratteri delle piante in condizioni di crescita locali, che mostrano l’adattamento ai diversi ambienti europei. Ma anche per contribuire allo sviluppo di nuove varietà incrociando e selezionando varianti specifiche. E, infine, per una questione educativa: se vogliamo fare in modo che le risorse genetiche siano conservate dobbiamo sensibilizzare l’opinione pubblica”.
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