Gli scienziati hanno sviluppato un nuovo strumento per favorire la conservazione della specie degli orsi polari: si tratta del DNA ambientale
L’orso polare, simbolo indiscusso dell’artico, è una delle specie maggiormente minacciate dagli effetti del cambiamento climatico: classificato come Vulnerabile dalla Red List della IUCN, la specie conta oggi meno di 30mila individui.
Il ritiro dei ghiacci polari, oltre a modificare drasticamente l’habitat della specie, ha inasprito anche i conflitti tra questo carnivoro e le comunità locali, esasperate dalle incursioni degli animali alla ricerca di facili risorse alimentari.
A causa del continuo ridursi del suo habitat, la specie potrebbe perdere il 30% della sua popolazione entro il 2050 ed estinguersi in natura prima della fine del secolo.
Inoltre, a minacciarne la sopravvivenza ci sono l’estrazione di petrolio e gas e la presenza di inquinanti nell’oceano, dove vivono e si alimentano le prede dell’orso polare. Ma ora, a supporto della conservazione di questa iconica specie esiste una tecnologia innovativa, basata sull’analisi del DNA ambientale.
Le attività di monitoraggio costanti e accurate delle popolazioni sono di fondamentale importanza per la conservazione delle specie.
La ricerca sull’orso polare, specie elusiva e particolarmente difficile da individuare, manca di dati fondamentali sulle dimensioni delle popolazioni e sul grado di connessione tra queste.
Ora dal Global Arctic Programme gestito dal WWF arriva una soluzione a questo dilemma: una tecnica di analisi del DNA che permette di tenere traccia degli spostamenti dei singoli individui senza il bisogno di interagire direttamente con loro, così da evitare interazioni sgradite.
La prima idea del team è stata quella di usare le feci per individuare e identificare gli individui, ipotesi presto scartata sia perché il DNA che si ritrova negli escrementi è spesso troppo degradato per essere letto, sia perché toccare la loro cacca infastidisce gli stessi orsi polari, che la usano anche per comunicare la loro presenza ad altri esemplari.
Si è quindi pensato di provare con un’altra fonte: le cellule della pelle che questi mammiferi perdono dalle zampe, e depositano nelle impronte che lasciano nella neve.
La tecnica è stata sperimentata non solo sugli orsi polari, ma anche su alcuni esemplari di lince europea e su uno (che vive però in cattività) di leopardo delle nevi.
L’idea è che le tracce organiche che rimangono nelle orme vengano conservate dalla temperatura, impedendo il rapido degrado del DNA: raccogliendo le cellule epidermiche, i peli e altri “resti” del passaggio dell’animale, è possibile ricostruirne il genotipo e quindi identificarlo.
Messa alla prova sul campo, la tecnica si è rivelata efficace: in particolare, è stato possibile ricostruire con precisione il DNA dell’87% degli orsi polari le cui tracce sono state esaminate.
Con lince e leopardo le cose sono andate un po’ peggio, ma a fare da contraltare c’è il fatto che l’analisi del DNA ambientale permette di allargare a dismisura il campione di analisi, visto che orme e tracce sono onnipresenti, e decisamente più facili da studiare di un animale vivo (e contrario alla cattura).
Il Global Arctic Programme spera ora che questa tecnica diventi lo standard nella conservazione degli orsi polari, e che il suo uso si espanda a tutti gli animali che vivono nella neve.
La tecnica, sperimentata anche con altri mammiferi a rischio, è spiegata in uno studio pubblicato su Frontiers in Conservation Science.
Questo aspetto rende la specie un’ottima candidata per testare il nuovo metodo di monitoraggio non invasivo sul DNA ambientale: le analisi del DNA vengono svolte direttamente prelevandolo dalle cellule presenti all’interno delle orme rilasciate dall’animale sulla neve.
Questa metodologia si basa sul fatto che ogni essere vivente rilascia nell’ambiente materiale cellulare che lo identifica geneticamente. Le gelide temperature dell’Artico, inoltre, eviterebbero la degradazione del materiale, rendendo questa una tecnica adatta alle condizioni climatiche estreme che qui si registrano.
Le analisi del DNA ambientale hanno l’enorme vantaggio di riuscire a migliorare i risultati degli sforzi di conservazione per la specie.
Questa innovativa tecnica infatti permette di comprendere meglio le dinamiche di popolazione, studiare il comportamento e gestire al meglio i conflitti con l’uomo attraverso l’identificazione accurata dei singoli individui.
Ulteriore vantaggio è che i campionamenti possono essere svolti anche da figure non professionali, quali volontari e comunità indigene.
Questo porta da un lato ad aumentare le aree di studio e dall’altro a migliorare il coinvolgimento delle popolazioni locali, aspetto fondamentale per aumentare l’efficacia delle strategie di conservazione sul lungo periodo.
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